mercoledì 12 agosto 2015

Diary #03 - Il prezzo da pagare

Ritorni in città un pomeriggio di agosto, hai cambiato quattro treni, di cui due senza biglietto. Sei sola e trascini una valigia pesante al seguito. Fa caldo, ma è brutto, non si vede il sole, l'umidità è alle stelle e ti assalgono le zanzare. Per difendere il sangue che ti serve per vivere, cominci a camminare nervosamente lungo il viale, lo stesso che tra qualche ora sarà popolato da donne di antica professione. Ti immagini come sarebbe una vita diversa, quando il clacson suona e tua cugina ti fa un cenno. Lei, così diversa da te, non avrebbe immaginato una vita diversa. Disciplinata, a modo, cortese, instancabile lavoratrice, inguaribile perfezionista. Lei, con cui hai un legame vero, ma difficile. Un botta e risposta in cui la botta prevale e spesso è meglio sostituire la risposta col silenzio. Non vi capirete mai, ma vi volete bene. E infatti lei è l'unica che ha risposto all'appello, ha preso l'auto ed è venuta a recuperarti in stazione. 
Scende dalla macchina e vi abbracciate, arriva subito la frase che non vuoi sentire "ti vedo bene", bestemmi dentro, sorridi fuori. Metti in memoria di cercare un corso di assertività appena agosto finisce. Dici " è stata la più bella vacanza di sempre", mentre pensi "sono ingrassata e si vede". Non sai nemmeno come ti senti, perché sia la bocca sia la mente dicono cose vere. Ti senti bene, ti senti male. Ribalti la situazione, per evitare sviluppi, dici "ti vedo rilassata" e lei comincia a parlare di sè. You're safe
La parte più difficile è caricare la valigia in macchina, perché "il baule è troppo piccolo, il sedile si rovina, davanti no perché se faccio un incidente rompe il vetro". Le dici "se hai un cavo la lego dietro a mo' di carretto", mentre pensi che forse avresti fatto prima ad andare a casa a piedi. Dopo aver alzato il macigno tre-quattro volte, seguendo alla lettera direttive e rimproveri del capo, alla fine piazzi la valigia sul sedile e dici "qui va bene". La sua faccia è chiara, non va bene affatto, ma tra meno di mezz'ora ha la messa e lascia correre. "Ora che la valigia è dietro, cerca comunque di non fare incidenti", le dici, mentre procedete ai 50 all'ora sul vialone deserto. Ti racconta delle sue vacanze e di vostro nipote, ti ritrovi a pensare che se guidassi tu sareste almeno 30 km oltre il limite di velocità, con la cintura solo perché la macchina fa beep se non la indossi, alcol test positivo anche se di poco, droga test negativo (anche se per poco). 

Mi chiedo perché sia così, in fondo la vita secondo le regole è più serena, è come sentirsi protetti, una legge che ti fa da genitore mentre affronti il mondo e i genitori non ci sono. Mi riprometto spesso che sarà così anche per me, un desiderio di tranquillità pagato con la disciplina, con la consapevolezza che, se fai il conto giusto, il risultato non potrà che essere quello stabilito. Ma i conti giusti finisco per non farli e ho smesso di credere che la disciplina possa salvarmi, nemmeno affidarmi a una religione, ho bisogno di trovare me e la forza che da qualche parte dovrei aver lasciato. 
Arrivo a casa e non c'è nessuno, non vedrò i miei fino a fine agosto. Lascio tutto, prendo la macchina, faccio la spesa e mi sposto nella mia città di studio. 
Era il 9 agosto, oggi è il 12. A parte la gente del tirocinio non ho visto nessuno. Sono tutti in vacanza o impegnati con la tesi, le persone dell'università non le voglio vedere. Non riesco a capire se sto bene o sto male, quel che è certo è che altaleno, ma è diverso da prima. Ho capito che il dolore arriva come un fulmine, ma è il prezzo da pagare, quando esci dalla doccia e ti cade l'occhio allo specchio che non guardi mai. E una voce ti dice: "che cosa sei diventata?". Cosa, non persona, un corpo che non ti appartiene e che ti imprigiona, che vorresti distruggere, perché ti sfugge sempre di mano. Chi sei tu, nello specchio, perché ti odio? Perché sei così brutto, perché ritorni sempre dove non voglio che tu stia? Perché non rispondi ai miei comandi? A te che odio, a te che ora mi fai piangere a dirotto, a te, però, dico grazie di non avermi abbandonata meno di 12 mesi fa, quando ti avevo ridotto a poco più di niente. Grazie di essermi sopravvissuto e di avermi portato tra le braccia della persona che amo e che so che mi ama. Grazie di esserti preso cura di me, di essere stato in grado di sopravvivermi, con i tuoi millenari meccanismi. Grazie perché io mi sarei molto anti-darwinianamente estinta. Piango. La mia anoressia è stato il prezzo da pagare per poter vivere. Ho sempre pagato e ho pagato col corpo il mio diritto alla vita, un po' come prostituirsi. Ora ho deciso di provare a contrattare un po' sul prezzo. Rimarrà l'odio, forse. Rimarrà il pensiero di fare schifo, la vergogna di mostrarsi. Forse aumenterà, all'aumentare mio. Un aumentare che mi sembra non avere limite. Ma la vergogna e lo schifo non sono mai spariti ci sono ora, c'erano quando i kg erano più di questi. Forse erano un po' meno 9 kg fa, ma la verità è che 9 kg fa non vivevo. Andavo a dormire ogni sera con la sensazione che il cuore non avrebbe retto fino al giorno dopo. Conteggiavo nelle calorie anche la mezza big-babol che mettevo in bocca quando alla settima ora di camminata quotidiana avevo la sensazione di svenire e mi servivano zuccheri. Quante volte una panchina mi ha salvata al pelo. Quanto era distante la felicità che ho provato quest'anno, nello stesso mese in cui, un anno esatto fa, stavo per lasciare andare tutto. Mi guardo allo specchio solo per sbaglio. Oggi ho visto le gambe, la pancia, i fianchi. Mi sono sentita morire. Mi guardo dentro e sento un giogo sulla mia felicità. Però c'è, anche lei. La felicità. C'è un po' di voglia, di determinazione nel provare nuove vie. La felicità che è ora seduta a fianco della tristezza. Il desiderio al fianco della rassegnazione. C'è tutto questo, tutto insieme. Non capisco più niente, ma non voglio né ordine né silenzio. Non voglio che oggi diventi domani solo per ricominciare a costruire l'ennesimo ordinato domino che cadrà quando io sarò sfinita. Preferisco lasciare le tessere a terra o costruire due aerei: uno per volare via e uno per tornare. Costruire una casa, in cui la mia mente maligna dice che non entrerei mai perché son troppo grassa. Ma almeno sarà casa e la condividerò con qualcuno. E sarò felice. E sarò triste. Sarò, insomma. Sarò.

giovedì 2 luglio 2015

Diary #02

Oggi mi sveglio male. Succede da qualche giorno, succede sempre in sessione esami. Cerco la clausura, sola nella mia casa da fuoriesede, e puntualmente attraverso un infuriare di crisi. Che si traducono poi in silenzi telefonici, spezzati da qualche grido d'aiuto. Ormai chi mi sta vicino lo sa. Ci provano sempre a dirmi: "ma dai, che vai su a fare che le lezioni sono finite". Ma per me è importante riuscire a stare qui, anche se crollo. Voglio imparare a starci.

Tutto si somma: solitudine, difficoltà nello studio a causa dei pensieri che si interpongono tra me e i libri, a causa della sensazione del grasso che ho addosso e che mi obbliga ad alzarmi, chè stare seduta mi infastidisce. I trenta gradi non aiutano, nauseano e la staticità mi uccide. I pasti si confondono, si assottigliano, promesse di leggerezza. Ma poi la fame attacca e con lei la frustrazione. Frustrazione di non saper più resistere, ma che dico...di non voler più resisterle. Io non voglio più ritrovarmi senza forze, con i capelli che cadono, incapace di vedere i colori della vita. Però non voglio essere così grassa, dice una voce della mia testa. Inizia la battaglia; ora che le voci sono diventate due, ora che il DCA non regna più sovrano, è tutto più difficile, perché niente mi tranquillizza. Mangiare mi preoccupa ancora, ma ora ho paura anche di digiunare. Appena sento che mi mancano le forze capisco che sto sbagliando, che mi sto facendo male, ma se vedo i jeans che non vanno più è una tragedia. Poi arriva l'abbuffata, che a volte si moltiplica, che mi toglie le forze. Solo vomitare poi mi annebbia, mi anestetizza. Allora lì si attutisce tutto e ogni cosa viene rimandata a domani.

Un domani come oggi in cui, appunto, mi sveglio male. Ma mi obbligo nella routine, ho ancora tre esami a luglio e sono messa un filo male. Colazione, che riduco. Studio. Ho fame, ma tiro fino all'una. Caccio indietro i pensieri. 
Penso che dovrei non mangiare. Che potrei prendermi un'ora per farmi un giro e poi tornare a studiare. Potrei andare a correre. Dio, ci sono 30 gradi all'ombra, potrei morire. Ho fame. Ma che cazzo sto pensando? Mi arrabbio con me stessa per i pensieri. Mangio. Ok, mangio, ma mangio poco. Rieccoli.

La verità è che oggi mi sento più grassa del solito. Forse sono ingrassata. Forse è il caldo. Forse è che quando cerco di fare un passo fuori dal DCA, il primo ritorno che ho è fisico: mi sento ingrassata, ma realmente. Poi magari l'ago della bilancia non si muove. Ma io sono convinta. E questa percezione mi  assilla fino a farmi un po' perdere di vista ciò che voglio davvero, in funzione di un ideale di felicità e serenità che ho associato alla magrezza e che non riesco più a staccare da lì.

Joe, chiamiamolo così, il mio amico, ha capito che oggi non va. Lui sa tutto e cerca sempre di capire quello che gli dico. Poi cerca sempre di spiegarmi come vede le cose lui. A volte me la prendo un po', anche se non glielo dico, perché penso che sia riduttivo dirmi: "devi vivere". Di fronte al mio disagio, che ho imparato essere più complesso di una semplice rincorsa alla magrezza, il "devi vivere" mi sembra la soluzione comoda, un po' buonista, come la pacca sulla spalla di chi vede il tuo problema, ma non vuole farci i conti, e ti manda il messaggio: "non pensarci". Ma il suo "devi vivere" è sincero. Non mi dà nessuna pacca sulla spalla, rimane lì a sentire. Resta al mio fianco, e mi dice "vivi. Ridi". E andiamo via insieme e in effetti ridiamo, viviamo di brutto. Mi ripete che sono bella, non importa se ho appena finito di ridere o di piangere. "Sei la più bella del mondo, lo sai?". Con lui vivo.  I pensieri ci sono, ma voglio vivere. E una delle prime notti che siamo usciti abbiamo mangiato sulla panchina la pizza bisunta dell'unico fornaio aperto a quell'ora. E ci ho pensato, sì, ci ho pensato che quella roba lì non andava bene. Che poi il giorno dopo avrei dovuto digiunare...e...e...ci penso domani. Sì, ho pensato così. Quella notte volevo solo vivere. Ho rimandato tutto. E il giorno dopo siamo usciti. E ho riamando di un giorno ancora. Poi le crisi vengono, a volte sembrano non finire. Ma intanto ho vissuto, ritardando il momento in cui dover pagare il pegno per il mio star bene. 
Per me è così: per un attimo che sto bene, devo correrne dieci, devo studiarne dieci. Per rimettermi in pari. Come per espiare una colpa. Come per meritarmi il fatto di essere stata bene. E alla fine le cose si invertono: inizio ad espiare la colpa prima di averla commessa, in previsione di qualcosa che potrebbe avvenire. Ma se non avvenisse sarebbe meglio. E quindi finisco per espiare, per soffrire e basta. 
Joe mi ascolta. Mi assiste nella mia fase riflessiva, alla fine mi "scopro" e gli parlo della magrezza, gli dico il significato che ha per me, gli chiedo perché essere magri è importante. Partiamo con un blablabla sulla società. Ma perchè non posso essere libera? Perché non posso essere felice? Sono grassa. Sì, penso due cose opposte allo stesso tempo. Impazzirò. 
Joe inizia a parlarmi del mare. Del fatto che andremo al mare insieme. E se penso di andare in un posto dove dovrò mangiare senza poter fare nulla io, se penso anche solo all'idea del costume mi viene male. Poi andrò e mi metterò quel dannatissimo costume. Morirò dal disagio? Probabile, almeno all'inizio. Ma la verità è che per me il mare non è costume, non è cibo: è fare un viaggio con lui. Poter vedere la sua terra, vivere la sua vita. Sentire che mi sta mostrando una parte di sé, che mi sta accogliendo come parte della sua realtà. Al resto ci penserò, magari quando sarà il momento. Joe ha mandato la palla fuori campo, non sto più facendo avanti e indietro ossessivamente, cercando di mandare la rete da un lato o dall'altro, ma voglio vivere al di fuori del campo. Il grasso? Sì, c'è ancora. C'era, c'è sempre stato, ci sarà.
Pomeriggio di studio, sto seduta tutto il tempo, mi concentro e sono felice. Sì sì, le gambe si toccano e la pancia straborda. Vado a correre. Ceno. Ora scrivo. Perché abbuffarmi? No, oggi no.
Mi son svegliata male, sì, ma poi è andata bene. Sono felice.

martedì 30 giugno 2015

Diary #01

CAOS. Torno dalla psicologa. Un'ora di racconti vuoti. Avevo cominciato ad aprirmi, oggi mi chiudo. Vorrei dirle quello che faccio, le ho già detto quello che faccio, ma non riesco a parlarne. Perché parlarne significa prendere in mano la situazione. Significa scoprire emozioni che mi fanno sentire a disagio. E io non mi sono permessa di scoprirmi per anni, nemmeno nel pieno caldo estivo. Di fronte al disagio, mi sale l'apatia. E' la mia condanna, la mia paura più grande. Ho scoperto che è anche la mia difesa. Apatia, anergia. Anoressia che si arrende all'abbuffata. Perché le abbuffate, per me, sono un'arresa. Sono la rassegnazione. Sono il segno che ho perso del tutto l'autostima e il senso di me. "Perché ormai sei ingrassata, quindi tanto vale".

Devo riscuotermi. La vita è una e non torna. Mannaggia a me. Sto vivendo? Un po' più di prima. Vivo a mille con la persona che amo. Vivo a mille e sento di voler vivere. Uscita a cena, venerdì sera, con amici. Passo il pomeriggio con ansia che sale e spunta in ogni pensiero. Faccio la voce grossa e dico: "voglio vivere e basta. Voglio divertirmi. Voglio essere come gli altri. E, se ho fame, voglio mangiare tutta la pizza. E non voglio nemmeno pensarci". (D'altronde, i "voglio" sono gratuiti, quindi si può abbondare.) Quale è stata la realtà? Ci ho messo un quarto d'ora a scegliere la pizza e ho comunque cambiato gli ingredienti per adattarla a me, perché delle 20 e più in listino non me ne andava bene una. Della metà pizza che ho mangiato, una fetta è finita a un mio amico (che dopo ha mangiato con felicità anche l'altra metà) e le croste le ho regalate al cane. Se fosse un orologio, potrei dire di aver mangiato venti minuti di pizza. No, non è tutta, ma sono soddisfatta. Non mangiavo pizza da anni. Sono stata bene. Non ho avuto pensieri dopo. Non per quello, almeno, non diversi dai soliti. Ero lì per la compagnia e loro erano lì per stare insieme. Punto.

Sono stanca e un po' frustrata. Sono in pieno cambiamento. Solo che tutto procede...lento. Anche vero che, quando si velocizza, vorrei che rallentasse. Perennemente indecisa. Sono una persona forte. No, forse forte no. Però sono una brava persona. Ero una persona molto semplice, prima di tutto questo. Chiara, lineare, trasparente. Ora sono talmente offuscata che non mi capisco nemmeno io. Non riesco più nemmeno a capire in che direzione voglio muovermi. A volte vorrei scrollarmi tutto di dosso, correre e vivere. E fregarmene. L'attimo dopo sono lì con il bilancino in mano che mi giuro che non toccherò cibo per tre giorni di fila. La verità è che non faccio nè l'una né l'altra cosa. Vivo un po' e poi mi ritraggo, digiuno un po', mangio un po' meno e poi mi abbuffo. 

Oggi per poco non mandavo a quel paese la psicologa. Mi ha fatto sentire a disagio, è andata a pungolare le zone scoperte, ed è il suo mestiere. Quando mi ha chiesto "a cosa pensi?", cercando di indagare il mio silenzio, pensavo a cosa sarebbe successo se mi fossi alzata e le avessi detto: "basta". Ma basta rompere i coglioni. 
Sono arrabbiata, ma non con lei. Lei me lo fa solo notare. Sono arrabbiata con me. Sono io che devo smetterla di lamentarmi, di rompere i coglioni. Di aver bisogno di aiuto. Voglio tornare ad essere la persona felice che ero. Vorrei sapere che questo percorso ha una fine, non necessariamente lietissima, ma almeno accettabile. Ho iniziato questa terapia ormai 4 anni fa. E sicuramente ho fatto passi da gigante. Scrivo che voglio vivere, che vado a cena per la compagnia. Andrò al mare quest'estate. Ma questo disagio, cos'è? Perché sento che il mio odio verso di me si placa un po', a tratti cambia forma, mi protegge di più dall'anoressia e dall'autolesionismo, ma tende a sfumare in una nebbia di apatia? L'apatia che sento è la mia difesa? Significa che lì c'è il groviglio dei problemi? Continuerò a spostarlo sempre più in là, sto groviglio, o prima o poi lo scioglierò?





La mia esperienza con i DCA (parte II)

IL PRIMO VIAGGIO IN OSPEDALE E LA PRIMA PSICOLOGA
Facciamo un salto avanti. Eccoci in seconda liceo; altro ambiente, una decina di kg in meno e sempre gli stessi pensieri. "Togli un alimento, togline un altro; salta un pasto qui è uno là. Evita i dolci. Corri ogni giorno un po' di più".

Arrivano gli altri. A forza di togliere alimenti alla dieta, qualcuno si accorse che qualcosa non era più come prima. Io non ero ancora troppo magra per gli altri (per me stessa non lo sarei stata mai), ma di certo stavo dimagrendo in fretta. Tanti mi dicevano che stavo bene, altri invece cominciavano a dirmi che continuavo a dimagrire. Guardavo un po' sorpresa le persone che mi chiedevano se forse non stessi dimagrendo troppo. Troppo? Ma non si rendevano conto? Non vedevano quanto grasso c'era? Io pensavo così.
Quando le cose si fecero più evidenti, iniziarono i problemi: gli altri intervennero. Volevano che mangiassi. Controllavano che mangiassi. Non c'ero più solo io, con la mia volontà di cambiare. C'erano anche gli altri, che iniziavano a volermelo impedire. E quello che feci fu cercare delle strategie per aggirare l'ostacolo.

Io mangio vegetariano. Il vegetarianismo è un'ottima scusa per eliminare un alimento, la carne, dalla dieta. È abbastanza ben accettato, come ormai anche le intolleranze e le allergie alimentari. Io "diventai" vegetariana. "Smisi di digerire" le uova. "Divenni intollerante" agli alimenti che non mi andava di mangiare.

Ospedale. Poi un giorno ebbi dei dolori addominali; se si sommano i dolori addominali un po' seri a un parente medico, il risultato è un ricovero assicurato. Mi trovarono i valori ematici sballati, il ferro sotto i piedi, mi tolsero litri di sangue per le analisi e mi fecero la gastroscopia. Alla fine venne fuori che avevo un'infezione. Ma nel frattempo mia mamma si era spaventata a morte per il ricovero e mi chiedeva "perché non mangi? Perché vuoi morire?". Era spaventata; nella realtà dei fatti, non ero nemmeno sottopeso, solo molto dimagrita, non stavo per morire. E non volevo nemmeno! Ma lei aveva capito, aveva messo insieme i pezzi con una consapevolezza che io ho trovato solo molti anni dopo. Oltre a farmi domande del genere, la mamma-ansiosa aveva parlato con il parente-medico delle mie pensate alimentari. Fu così che il parente-medico mi propose una psicologa.
La proposta mi fu fatta bene. Non pensavo che mi servisse una psicologa, ma compresi che per mia madre, invece, aveva senso che ci parlassi e quindi non rifiutai. Era una tipa carina, con cui in effetti mi trovai bene. La vidi solo un paio di volte e fui dimessa. Non avrebbe potuto seguirmi fuori dall'ospedale, quindi mi lasciò il numero di una psichiatra a cui rivolgermi.

La matita per occhi. Mia madre la chiamò e mio padre mi ci portò. Lo studio della dottoressa era un po' fuori dalla città. Non ricordo di cosa parlammo. So che mi chiese se mi fossi appena truccata. Io le dissi di no, che ero truccata dal mattino, per andare a scuola. Allora volle sapere la marca della matita per occhi, dato che non aveva sbavature. Poi chiamò mio padre, che aspettava fuori, e gli disse che non avevo problemi. In macchina, tornando a casa, piansi disperatamente. Quelle parole mi avevano fatto malissimo: non ha problemi. Tutto il mio disagio, per me così grosso ed esistenziale, era stato ridotto a un niente. Niente più di una matita per occhi.
 Fiumi di lacrime. Mio padre, poverino, alla guida della jeep non sapeva cosa fare. E, ironia della sorte, per tirarmi su il morale decise di fermarsi per comprare una vasca di gelato da mangiare dopo cena. Non è che non avesse capito niente dei miei problemi; forse non aveva ben chiare quali fossero le reali implicazioni, altrimenti magari mi avrebbe consolata in altro modo. O forse voleva solo far finta di niente. In fondo, per 10 anni, era stato abituato alla bambina che diventava la più felice del mondo davanti ad un gelato al cioccolato. Prendemmo il gelato e gli feci promettere di non portami più da una psichiatra.

LA SECONDA PSICOLOGA: COSA È ANDATO STORTO

Lasciata calmare la tempesta della matita per occhi, mia madre tornò all'attacco. Recuperò il numero di una psicologa, mi disse: "è una psicologa, non una psichiatra" (per me era diventato chiaro che i miei problemi non fossero veri problemi per un medico psichiatra). "Dicono che sia molto brava".

Io non volevo andarci, infatti temporeggiai. Poi, a quella che all'epoca consideravo la mia migliore amica consigliarono una psicologa per altri motivi e io trovai il coraggio di andare dalla mia.
 Fu un disastro. Parlammo qualche volta, mi fece tante domande. Poi mi fece i test dell'intelligenza e mi disse che avevo i risultati alti. Mi chiese di disegnare la mia casa e la mia famiglia e le dissi che non ero assolutamente capace. Mi vergognavo anche di come disegnavo. Alla fine, su insistenza, le stilizzai degli omini, come una bambina di tre anni. Quando volevo evadere dalle sue domande, le proponevo Leopardi e i suoi problemi esistenziali. O qualche filosofo. Spesso arrivavo da lei fumata, con la scia di erba che mi seguiva a un chilometro. E più si avvicinava, più la allontanavo. Era junghiana. Un giorno mi chiese come vivessi la sessualità con il mio ragazzo. Si era spinta troppo oltre. Mi disse delle cose giuste; mi disse che il mio vero problema non era il cibo, come pensavo io, non era il fatto di sentirmi grassa. Indagò, o almeno ci provò, il rapporto con mia madre, perché - come mi fece notare - la mamma è la prima persona che ci nutre. Cose giustissime, che magari avessi capito allora, nel loro vero significato! Ma non riuscì a spiegarmele. Purtroppo, non gliene diedi il tempo. Con mio grande sollievo, interruppi la terapia. 

mercoledì 24 giugno 2015

La mia esperienza con i DCA (parte I)

Questo post e quelli che seguiranno non vogliono essere un ricamo su me stessa (anche perché, dato l'argomento trattato...!), ma un semplice racconto, a grandi linee, di come e quando i DCA sono capitati nella mia vita, di quali ostacoli ho incontrato nell'affrontarli, di come son cambiati nel tempo ed altri dettagli. 
Spero che questo lungo racconto possa avere una qualche utilità a chi vive i DCA e a chi è vicino a qualcuno con dei DCA. Magari leggendo ritroverete in queste esperienze qualcosa in comune con le vostre, magari no. Sono, appunto, "esperienze".

QUANDO, COME, PERCHÉ È INIZIATA
Quando. Alle scuole medie. Non c'è stato un momento preciso dei tre anni in cui la problematica si è rivelata, ma si è trattato di un processo in continuo crescendo, pur con momenti di maggiore coinvolgimento ed altri più distesi. Facciamo 11-12 anni?
Come e perché. Il mio avvicinamento alle problematiche dell'alimentazione è stato graduale. Alle scuole medie, le mie competenze in materia di alimentazione erano scarse. La mia famiglia mi aveva sempre lasciato la più totale libertà di mangiare quello che volevo quando volevo al di fuori dei pasti regolamentari, che erano belli, abbondanti e preparati dalla mamma. Mangiavo tanto, forse un pochino di più di quello che era il mio fabbisogno, ma non poi troppo; ero "in carne", ma non grassa, come presto avrei cominciato invece a definirmi.
Cosa è successo alle medie? Diversi eventi, in sostanza non troppo diversi da quelli di molte/i altre/i ragazze/i. Ne succedono di cose in quegli anni; ci si sviluppa, si cambia corpo e vita.
La mia nuova classe, il mio nuovo mondo. Nel settembre del primo anno delle scuole medie sostenni l'esame di ammissione in conservatorio e lo passai. Le lezioni di teoria e solfeggio si tenevano con la classe di prima media del conservatorio e dovetti inserirmi lì. Ma i miei genitori non volevano che frequentassi la scuola media in quell'istituto e mi iscrissero ad un altro, che ritenevano migliore. Non conoscevo nessuno nemmeno lì. Così dovetti inserirmi in due posti contemporaneamente.
Cambiamenti. Insomma, era fatta, ero alle medie, ero grande anche io! Gli insegnanti avevano smesso di chiamarci "bambini" in favore del più evoluto "ragazzi". E la cosa mi piaceva. Ci si sentiva tutti tutti un po' diversi, un po' cresciuti e come tali si voleva apparire. A far tendenza non c'erano più i Pokemon, ma il "Cioè" (una rivista per ragazzine) ed al mattino non si guardavano più i cartoni, ma MTV (e quanto poco mi piacesse la musica che passava lo so solo io!). C'erano i primi cantanti, le prime cotte un po' più serie, di un tenore diverso rispetto a quelle delle elementari. Proprio io, che alle elementari mi ero sposata più volte con più compagni con anelli di carta. C'era tutto un nuovo mondo, in cui alcuni se la cavavano meglio, erano più "in". Altri erano definitivamente "out".
E io... Io, in tutto questo, stavo in un limbo. Ero quella che vestiva un po' da maschio, senza nemmeno un paio di jeans aderenti, le magliette tutte sportive e abbondantemente
larghe (mi piacevano così, erano comode; e poi...il fascino delle tute da ginnastica!); quella che in palestra sudava giocando e non si sedeva a chiacchierare sulla trave; quella che non faceva danza classica, nè hip-hop, nè pallavolo. Il mio sport era lo sci agonistico nelle mie montagne, dove ancora oggi ho una casa e trascorro molto tempo, insieme a persone del luogo, che mi conoscono e mi considerano una di loro. Ma allora non apprezzavo: volevo inserirmi in città, così...
...ho deciso di cambiare. Così i capelli son passati da lunghissimi alla lunghezza media e addio, senza una lacrima, alla treccia che tutti invidiavano. Lo sci è stato abbandonato con la scusa di dover studiare di più. Ho cercato di lasciare il conservatorio e l'inglese, che però son stata "forzata" a continuare. I vestiti erano più omologati. Ma non mi stavano mai bene come alle altre, perché...mi sentivo così grassa... I cartoni mi mancavano, ma cominciai ad ascoltare anche io MTV, per poter avere poi qualcosa di cui parlare. In effetti qualche cantante era carino. Ma io sarei mai potuta essere all'altezza? La mia risposta era NO, non lo ero. Non ero all'altezza di quel mondo, ma pensavo che, cambiando, lo sarei stata.
La mia famiglia. Proprio in quegli anni, i nonni cominciarono ad ammalarsi. Uno in particolare si è ammalato di Alzheimer. Mia mamma non ha mai voluto ricoverarlo e con grande coraggio, pazienza e impegno gli ha affiancato dei badanti e l'ha seguito lei stessa. È stato un lungo travaglio, durato 4 anni, una lunga discesa nel vuoto della mente, nella perdita di autonomia. Mia madre si stava lentamente esaurendo, per mio nonno e per i problemi sul lavoro. E io vedevo i miei genitori sempre meno. Mi capitava di passare in casa tutto il pomeriggio, dal pranzo fino alle nove di sera. Ricordo che, dopo pranzo, mi mangiavo intere confezioni di arachidi guardando "Settimo cielo"; non mi serviva tutto quel tempo per studiare, ero molto brava e veloce a scuola. Mi annoiavo. 
Come io e le arachidi ci lasciammo. Staccandomi dalla mia famiglia, che non vedevo per questioni di tempo, ho cominciato a chiacchierare di più con i compagni. Ricordo che un giorno chiesi a una ragazza di nome Eleonora - decisamente una delle più belle e corteggiate della classe - come facesse ad essere così magra, dato che anche io volevo essere così. "Non devi mai mangiare fuori pasto". Eureka! Quindi avevo una speranza di diventare come lei! Avevo una speranza di non sentirmi più fuori dal branco. Fu così che io e le arachidi ci lasciammo. Poco più in là, una mia compagna mi disse apertamente che secondo lei ero sovrappeso. Se riguardo ora, a distanza di più di dieci anni, le foto di classe, vedo che LEI era abbondantemente in sovrappeso. Ma allora non lo vedevo. Lei girava nel gruppo delle persone "in". La prima tessera del domino aveva smesso di vacillare ed era caduta.
Qualche tessera dopo... Cominciai a correre e a dimagrire un pochino. Cercai di mangiare dolci solo il week-end e alle occasioni speciali, ma in questo non ero bravissima. Sante barrette Kinder! La mia alimentazione si fece disordinata. Tolsi la canonica cena, che sostituii con pane e yogurt. Per intenderci, tanto pane e tanto yogurt. Mia mamma preparava frigoverre di yogurt alla banana ben zuccherati. Ma era yogurt, nella mia testa. Non si trattava ancora di calorie, ma del gesto. Erano primi passi incerti verso qualcosa che non conoscevo e che desideravo, perché, a mio parere, mi avrebbe resa più adatta. Non sapevo bene cosa fare, non volevo avere fame, non pensavo all'anoressia; volevo solo...cambiare.
Lo shopping. Quando chiesi a mia mamma di comprarmi i miei primi jeans attillati a vita bassa (possibilmente con qualche borchia), mi accontentò (senza borchie). Quei jeans a lei non piacevano, a me nemmeno, ma sentivo che..."dovevo". Lo shopping era diventato difficile; mi sentivo a disagio con addosso quei vestiti così femminili, si appiccicavano alla pelle. Ridatemi la tuta. Dovevo cominciare a usare il reggiseno. Mi era venuto il ciclo. Mi sentivo grassa. Aiuto!
C'era una cosa preziosissima in questo contesto, che ora riconosco: lo dicevo. Chiamavo mia mamma in camerino, magari glielo dicevo a bassa voce sul filo della tendina, quando lei, spazientita, minacciava di lasciarmi al negozio e andarsene. Ma le dicevo "mamma, secondo te, sono grassa?". Lei negava; a volta lo diceva alle commesse ("mia figlia è scema, dice che si sente grassa"), che negavano anche loro. "Così stai bene, mica come tutte quelle ragazzine anoressiche che si vedono in giro!", mi disse una signora una volta. E io pensavo che nessuna di loro capisse cosa volesse dire essere me, io che avrei voluto mille volte essere come loro. Non anoressica, sia chiaro. Solo magra come loro. A posto come loro. Felice come loro. È stato quest'ultimo passaggio (magrezza -> felicità) a tradirmi. Perché, anche se allora non me ne rendevo conto, avevo attribuito al dimagrimento la capacità di risolvere la tristezza legata al mio disagio. L'avevo eletto a mezzo per risolvere i miei problemi.

Se riguardo le poche foto che mi rimangono di quei giorni, posso dire che non ero davvero grassa. Ma quello che dicevo, in effetti, era diverso; dicevo "mi sento grassa". Non che lo fossi. E non lo dicevo per sentirmi rispondere che ero bellissima. Nessuna risposta sarebbe stata in grado di garantirmi serenità, perché il problema non era la mia presunta ciccia, ma il mio sentirmi totalmente inadeguata alla mia nuova situazione, al mio nuovo mondo. Ma mi c'è voluto molto tempo per capirlo.

Leggere i segnali. Un giorno chiesi a mia mamma: "mamma, mi porti da un dietologo?". La risposta è stata "no, non ne hai bisogno, stai bene così". Sono tornata all'attacco più volte, con entrambe i genitori, insieme e/o separati. Sempre no, no e no. Pensavano con sincerità che non ne avessi bisogno. Se ne facciamo una questione di BMI, in effetti, non ne avevo bisogno. Loro avevano tanti altri problemi, tra lavoro e nonni. Io stavo diventando sempre più adolescente. L'avranno preso per un capriccio dell'età, una pretesa da ragazzine. Non c'è stato niente da fare e non avevo ancora né i soldi né le modalità per fare da sola. Quindi, non potei andare dal dietologo.

Forse, una visita mi avrebbe fatto bene. La mia alimentazione si stava facendo disordinata, al di là della cena, che davvero era stata sostituita in modo tale da far aumentare i proventi dell'industria dello yogurt, alcuni cibi scomparivano dalla mia alimentazione nel corso dei giorni. Rimanevano ancora dei dolci, qua e là, dei carboidrati. Ma non volevo più la bistecca alla valdostana, le uova, il risotto coi funghi... Non c'era una logica sotto. Non volevo togliere un macronutriente preciso, ero ancora mentalmente piccola per questo. Toglievo a caso, sperando che quel caso mi aiutasse. E ci credevo, credevo davvero che potesse aiutarmi. Forse un dietologo avrebbe capito e mi avrebbe aiutata, se non altro, tirandomi via la nutrizione dalle mani, rimettendola a posto, conservandola. Magari mi avrebbe spiegato le cose, mi avrebbe detto che mangiare era il mio modo per vivere e che il cibo non era la modalità con cui avrei risolto i problemi. O forse nemmeno il dietologo sarebbe servito a evitare quello che già stava succedendo.
A conti fatti, ai miei genitori non rimprovero niente. Non avrei potuto nemmeno immaginare due genitori migliori, mi sono sempre stati a fianco e ancora lo sono. Il motivo per cui ho raccontato questo particolare episodio è che vorrei potesse essere utile ad altre persone, magari a un genitore preoccupato, se mai dovesse passare di qui. È un mestiere difficile, quello di padre o di madre, è difficile stare accanto a bambini che crescono ed è difficile leggere i segnali del loro disagio, attribuendo a ciascuno la giusta importanza. La richiesta di un dietologo può essere un "capriccio" e magari non c'è da preoccuparsi. Ma a volte è qualcosa di più. Nel mio caso, oltre al dietologo, chiedevo di fare l'anno studio all'estero. L'ho chiesto per anni: avevo una voglia matta di andare vie dal posto in cui ero, non mi trovavo bene. Scrivevo "England" su tutti i quaderni e i diari, volevo andare lì. Segnale numero due. C'era un disagio psicologico sotto, volevo cambiare, andarmene, scappare.  Ma nessuno lo comprese, almeno all'inizio.


...to be continued